Recensioni 2020

Tutte le recensioni degli album del 2020, aggiornata costantemente con gli ultimi ascolti. Ordinata dal migliore al peggiore, ovviamente secondo il mio modesto parere.

9/10

Mac Miller – Circles

Nel caso dell’album postumo di Mac Miller, completato dal collaboratore Jon Brion, è difficile resistere alla tentazione di far prevalere il contesto sull’opera in senso stretto. D’altronde, si tratta di un rapper classe 1992, morto per droga a 26 anni, che non ha mai nascosto i suoi abusi di sostanze e la dura lotta con la depressione. La sua storia, tragica ma purtroppo comune a tanti artisti hip-hop, nasconde però una sensibilità unica, che Miller ha messo a fuoco solo con questo album postumo. Ridurre “Circles” a un coccodrillo è poco generoso, perché indipendentemente dal contesto funebre in cui nasce è un grande esempio di emotività pop-rap e neo-soul. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Neptunian Maximalism

È un viaggio disorientante, fatto di estese parti strumentali alternate a brevi interventi vocali, dai toni liturgici ed esoterici. Ai testi provvede Pierre Lanchantin, studioso di proto-linguaggi dell’università di Cambridge. I titoli estesi dei brani forniscono qualche indizio sulle ispirazioni della formazione, aiutando a seguire meglio la narrazione, ma all’ascoltatore è richiesto di lasciarsi guidare dalla fantasia. Di brano in brano, si costruisce solennemente l’atmosfera e si alimenta la suggestione, tratteggiando sconfinati quadri astratti e sussurrando segreti inconcepibili.
Splendida ed evocativa la copertina, dipinta da Kaneko Tomiyuki. Più che un album, un’esperienza. Possibile erede di “At The Mountains Of Madness” (2005) del progetto Electric Masada, anche quello suonato con due batteristi e altrettanto colossale. (la mia recensione estesa su OndaRock)


8/10

Nick Kozik – Subnivean

Subnivean” è un termine utilizzato per definire l’ambiente di vita sotto la coltre nevosa, scelto da alcuni animali per proteggersi dai predatori e trovare riparo dal freddo invernale. Né vita né morte, è una situazione estrema di isolamento, dettata da condizioni disperate. Indubbiamente, ha una sua componente evocativa, che suggerisce percezioni smussate e intorpidite, da completare con l’immaginazione. È un titolo perfetto per un ricercato, elegante album che dosa luci e ombre, concreto e astratto, alieno e umano in 37 minuti di musica evocativa. Quando fuori la temperatura cala sotto lo zero, quindi, rifugiatevi anche voi: in cerca di protezione, di calore, di suggestioni. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Poppy – I Disagree

Facile arrivare alla fine dell’ascolto assai confusi: è un album di forti contrasti, di sterzate improvvise e di colpi di scena assortiti. Anche inserita in una carriera a dir poco articolata, che vede la musicista affiancarsi alla youtuber e alla guida religiosa (!), è una collezione di brani che stordisce. Lasciando sedimentare le impressioni, però, emerge una critica caustica a una pop culture in mano a youtuber e influencer, l’esplorazione del contrasto vivido fra il packaging impeccabile e il cuore marcio di un esasperato vivere per apparire, sfoggiare, conquistare. Che Poppy sia destinata a scomparire, dopo questo inaspettato accesso di disperazione e rabbia? Difficile da prevedere, ma se anche l’idea di questo kawaii-metal non trovasse conferme, a noi rimarrà un album come questo “I Disagree”, da mettere magari nella stessa playlist di assurdità crossover come Zeal And Ardor. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Nero Di Marte – Immoto

Nell’affollato e spesso sterile contesto post-metal e death-metal, questi bolognesi trovano una via di fuga galattica, noir e tensiogena che supera le iniziali prove, ottimi esempi di un più canonico, labirintico, estremismo. Il contrasto fra le lunghe discese verso il silenzio e le fiammate metalliche, l’eclettismo canoro di uno Sean Worrell in stato di grazia, l’apporto ritmico instancabilmente vario del nuovo arrivato Giulio Galati e la flessibilità del bassista Andrea Burgio e Francesco D’Adamo consentono a “Immoto” di tentare una traiettoria personale. Persino l’imponente durata, un totale di 67 minuti, è giustificata dalla loro velenosa, nerissima creatività. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Dan Deacon – Mystic Familiar

Si poteva pensare a Dan Deacon, pingue e pacioccone compositore di una futuristica e ipercinetica elettronica, come a un artista ormai lontano dal suo periodo creativo. Invece è tornato in grande forma, capace di rinverdire l’acido collage di un tempo che dominava i primi album, unendolo agli spunti orchestrali dell’ottimo America (’12). Domina la suite “Arp”, uno dei brani dell’anno. Un gradito ritorno.


Neupink – Fluorescent Art

Un velocissimo, entusiasmante scorrere di futuristici, rumorosi, aggressivi, ripetitivi brani strumentali densamente arrangiati in uno stile fra il digital-hardcore e un math-noise-rock tipo Lightning Bolt. Violento ma anche divertente, è un album di incandescente musica al neon, dominato dalla devastante presenza della drum-machine. In un certo senso, è come aver ridefinito il cyber-grind.


Vladislav Delay – Rakka

“Una cazzo di ficulata”, dice Alberto Asquini su OndaRock. In effetti questo ansiogeno, assordante, inquieto lavoro del genio finlandese, questa volta, e dopo un lungo iato, più che mai violento. Un album fisico, che epiletticamente si contrae e strepita. Eccezionale, come il mitico Ripatti ci ha abituato da anni. Un’esperienza sonora che, pur non superando i vertici eccezionali del passato, ricorda a tutti che ancora oggi l’elettronica contemporanea può contare sul suo genio creativo.


Machine Girl – U-Void Synsthesizer

Bisogna affidarsi a Stephenson e Kelly e lasciarsi investire da questa bomba a frammentazione, dove ogni scheggia è un elemento impazzito di una cultura ossessionata dai media, ingrassata fino all’obesità, più malsana dall’overdose di informazione. Pur con chiari riferimenti nel passato, dunque, “U-Void Synthesizer” parla del presente iper-connesso, della bulimia da breaking news e dell’insostenibile frenesia della banda ultra-larga. Il quadro distopico e apocalittico è rafforzato da un dettaglio inquietante: è fin troppo reale. (la mia recensione estesa su OndaRock)


070 Shake – Modus Vivendi

La giovane autrice spicca per potenza evocatica ed eleganza, affidandosi con coraggio alla propria voce per trasmettere un tormento emotivo che suona commovente, struggente e quantomai contemporaneo. La continuità fra umano e robotico, asettico e carnale, è la traiettoria verso cui si muove un’artista che sembra destinata a un radioso futuro come interprete del nostro tempo, ben lontana dalle ovvietà del rap e dell’r’n’b al femminile degli ultimi anni. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Drown – Subacqueous

Da musicista oltranzista, Soroka non concede all’ascoltatore un liberatorio respiro finale. I due album a nome Drown sono un viaggio in apnea, che sicuramente richiedono la giusta propensione di spirito. È un ascolto che rievocherà ai musicofili Anathema, Cathedral, My Dying Bride, Opeth e Esoteric, senza ridurre comunque la faccenda a una semplice imitazione. Qui, con due composizioni estese, c’è lo spazio per abbandonare il pelo dell’acqua e tuffarsi nella fossa, dove nel buio sovrumano nuotano umanissime paure. Ma siete avvisati: sono trascorsi 6 anni dall’immersione, ma non è ancora il momento di affiorare in superficie, dobbiamo continuare inesorabilmente ad affogare. (la mia recensione estesa su Ondarock)


Dua Lipa – Future Nostalgia

L’album pop dell’anno, al netto di qualche imprevedibile sorpresa. Un concentrato di pezzi ballabili che non teme neanche l’ascolto attento, e quanto di meglio il female-pop mainstream abbia fatto negli ultimi anni. Concenso universale, e non potrebbe essere altrimenti: 89 di metascore, nellla top30 dell’anno per Rate Your Music.


Paysage d’Hiver – Im Wald

L’atteso ritorno dopo 7 anni del progetto svizzero è il compendio di atmospheric-black-metal più imponente del 2020. La versione affinata di vent’anni di esperimenti glaciali sul modello di Burzum e della scuola classica, con lo sguardo fra il permafrost e le stelle.


Zebra Katz – Less Is Moor

Ojay Morgan, nome d’arte Zebra Katz, è un rapper americano diventato una sensazione nel lontano 2012, con il singolo “Ima Read” usato dallo stilista Rick Owens alla fashion-week di Parigi. Nuovo profeta dell’hip-hop più queer, portavoce dell’estetica LGBT e della curiosa ball culture afroamericana, abita un universo musicale tradizionalmente omofobico, ma sempre più progressista (vedi Mykki Blanco, ma anche Cakes da Killa, House Of LaDosha e Le1f). Nato come un progetto artistico, fatto mentre lavorava altrove per pagarsi le bollette, sembrava ormai finito in un vicolo cieco dopo anni di sostanziale silenzio: due mixtape all’inizio dello scorso decennio, un Ep collaborativo nel 2015 e poi il vuoto. Poi arriva questo, uno degli album più stilosi, eccentrici, vivaci dell’anno.


36 & Zakè – Stasis Sounds For Long-Distance Space Travel

Cosa distingue il sogno dalla morte? Nel primo con il corpo immobile coesiste una mente che esplora un universo interiore, astratto e rasserenante, sinestetico e ipnotico; nella seconda, dominano l’angoscia totale e, dopo, una sconfinata nullità. Questo “Stasis Sounds for Long-Distance Space Travel” non è mai lugubre, perché una scintilla di emozione anima le sue lunghe suite e contrappone alla stasi del corpo il viaggio della mente. Lontanissimi dal caos metropolitano, dagli stimoli incessanti del villaggio globale iperconnesso, dalle scadenze pressanti e dalle allarmanti breaking news che tolgono il sonno, ci si ritrova a meditare per un’ora e mezzo abbondante, lasciando per un po’ che al muoversi del corpo si sostituisca il viaggio senza confini dell’anima. Non è un caso che 36 abbia pubblicato l’Ep “Music For Isolation” a inizio aprile: cos’è la quarantena che il mondo sta vivendo in questi mesi, se non una lunga stasi? (la mia recensione estesa su Ondarock)


Shabaka And The Ancestors – We Are Sent Here By History

Africano e globale, questo jazz astratto, melodico, violento e ballabile è uno dei grandi album del nuovo jazz, quello che sta rivitalizzando il genere dopo un paio di decenni di grande stanchezza. Spirituale e danzereccio, è una goduria per le orecchie e non scade mai nella calligrafia dei classici. Mica poco, vero?

Altri album 8/10:


7/10

Sepultura – Quadra

Il curioso svolgersi cronologico dell’album sembra un tentativo di emancipazione, almeno parziale, dal proprio ingombrante passato. Ne esce fuori un album che servirà ai fan per fare il punto di dove si trovano oggi i Sepultura, pronti a immaginarsi un presente senza necessariamente tradire il loro passato. Per tutti gli altri, è un bignami in stile “nelle precedenti puntate…”, utile per tornare in pari con un’avventura musicale che sembra ancora lontana dal doversi concludere. Nota di merito per il produttore Jens Bogren. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Eugenio In Via Di Gioia – Tsunami

Il gruppo torinese è un po’ dispersivo, ma questa raccolta è perfetta per metterne in mostra i punti di forza: una scrittura sbilenca, fra folk e pop, che più che un best of sembra un punto di partenza per la carriera. Il rischio di fare i simpaticoni, che condividono con i colleghi sanremesi Pinguini Tattici Nucleari, non deve comunque scoraggiare: facciamoci prendere dall’ottimismo, che le intuizioni richiamano persino gli Elii, toccando anche l’estetica degli Zen Circus.


King Krule – Man Alive!

Forse ho un problema con questo nuovo capitolo dl londinese Archy Ivan Marshall , questa volta meno a fuoco nel suo lavoro rispetto a “The Ooz”. Certo i suoi blues tormentati vanno ancora a segno, ma si è persa l’aura futuribile del suo sound, ora spesso riconducibile al post-punk, in particolare ai lavori dell’immarcescibile Nick Cave. Rimane un fuoriclasse


Sewerslvt – Draining Love Story

Drill’n’bass ma anche vaporwave, internet-culture in un lungo (fin troppo) album che comunque porta a casa alcune lunghe, avventurose esplorazioni sonore come “Slowdeath”, “Down The Drain”, “Mr. Kill Myself”, “Lexapro Delirium”. Intriso di riferimenti al mondo contemporaneo, in particolare a quello germogliato nelle bolle di Reddit e 4chan, è una dicotomia fra frenesia e malinconia, energia dirompente e nostalgia.


Gupi – None

Il bubblegum-bass è, ancora oggi, una delle poche musiche estremamente divertenti in giro. Qui non si reinventa nulla, ma si pone quel tipo di sound adrenalinico e futuristico al servizio di una potenza devastante fra house, trance e drum’n’bass. Un giro sulle giostre, che può lasciare disorientati i meno abituati a certi ottovolanti.


Pop X – Antille

Facile, facilissimo parlare di poppèr come di un progetto nonsense, ma ogni tanto Panizza tira fuori dal cilindro dei motivetti irresistibili. La sua ingenua malinconia, il suo vitalismo sbilenco, la sua filosofia cubista e astratta sono un tesoro dell’it-pop, che guarda da lontano e dall’alto. Questo è l’ideale seguito di “Lesbianitj” (’16), che fece entrare il progetto nell’età adulta.


Nazar – Guerilla

Di fusioni stilistiche strane, a Londra, ne sono nate tante. Dopo la dubstep, poi, è stata una vera rinascita musicale, che ha inglobato anche il nuovo jazz e l’hip-hop più contemporaneo d’Europa. Ora post-industrial, dubstep e kuduro angoliano si incontrano in un album che, ragionevolmente, suona come nient’altro sia mai stato prodotto. Mancano, magari, i crismi di una visione artistica rivoluzionaria o anche solo capace di cambiare gli equilibri fuori dalla propria nicchia, ma è comunque uno degli album del 2020 che porta aria fresca nei timpani.


Mare Cognitum & Spectral Lore – Wanderers: Astrology Of The Nine

Il maestoso album collaborativo “Wanderers: Astrology of the Nine”, partorito da due one-man band black-metal come Mare Cognitum e Spectral Lore, rispettivamente di origine statunitense e greca, totalizza 115 minuti di materiale. Ispirato ai nove pianeti del sistema solare, includendo quindi l’ormai da tempo declassato Plutone, è una lunga sinfonia divisa in brani estesi, quasi sempre oltre i dieci minuti. Rievoca la suite in sette movimenti “I pianeti”, di Gustav Holst, pubblicata nel 1921. Splendida composizione finale, di 23 minuti, mentre il resto è un po’ già sentito.


Caustic Wound – Death Posture

Nati nel 2017 a Seattle, ma arrivati solo ora all’esordio, i Caustic Wound non conoscono mezze misure: 14 brani in 26 minuti, con atroci urla stridule che si intrecciano a ruggiti spaventosi, in un vortice death-grind che tributa i colossi del genere, gli imprescindibili gruppi di fine anni Ottanta. Fra citazioni di Napalm Death, Brutal Truth e Terrorizer, quindi, si susseguono mattanze che tritano i timpani senza sosta. (la mia recensione estesa su Ondarock)


Perdition Temple – Sacraments Of Descension

Più che una qualche novità, però, i più esperti vedranno in tralice Deicide, Immortal e in generale vent’anni di death-metal satanico, malvagio e labirintico: 34 minuti all’inferno, per alleggerire l’anima in un bagno di ritmi forsennati, assoli supersonici e ruggiti tremebondi. L’onda lunga dell’intuizione degli Slayer, per i quali il metal estremo non aveva tanti confini e poteva espandersi sospinto solo dalla propria entusiasmante malvagità. (la mia recensione estesa su Ondarock)


Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs – Viscerals

Si può fare ancora stoner-metal, nel 2020? A patto di non prendersi troppo sul serio, con i volumi altissimi e con una svergognata capacità di incastrare fra i decibel qualche irresistibile motivetto.

Altri album 7/10:


6/10

Eminem – Music To Be Murdered By

I problemi di questo album numero undici non sono esattamente trascurabili. Alla sovrabbondanza della proposta si contrappone un dubbio banale ma lecito: e se di questi venti brani neanche uno rimanesse fra i suoi classici? Inoltre, come e più che in passato, si fa urgente immaginare un futuro per Slim Shady, che non può più affidarsi a scelte promozionali azzardate o rime disperatamente discutibili per sopravvivere in un panorama hip-hop che, va bene, forse lo riconosce ancora come il “rap god”, ma non per questo continuerà a venerarlo per sempre. Potrà continuare a proporre le stesse idee musicali, magari appena aggiornate per non sembrare troppo obsolete? Chissà. (la mia recensione estesa su OndaRock)


Squarepusher – Be Up A Hello

Ritorna per suonare la sua musica, dopo un periodo di crisi personale. Ancora una volta siggerisce la frenesia di un videogame, o del futuro che i videogame descrivevano dieci o quindici anni fa. Incollati al seggiolino dalle accelerazioni portentose, abbagliati dalle esplosioni ritmiche febbricitanti, ci si trova a fare un viaggio nel passato dell’artista, che ritorna per confermare la sua presenza senza per questo cedere né al trend attuale né alla mera replica dei suoi lavori epocali e più celebrati, quelli smaccatamente fusion.


D Smoke – Black Habits

Vincitore dello show Netflix “Rhythm & Flow” nel 2019, è arrivato all’esordio con una tecnica e uno stile classici, anche se già ben maturi. Un album come questo avrebbe lasciato il segno nel 2010, ma un decennio di ritardo sulle spalle lo riduce a una curiosità per gli appassionati.


Hatari – Neyslutrans

Successo all’Eurovision, anche grazie all’immagine cyber-sado-distopica che portano in giro questi islandesi. L’esordio deve qualcosa agli Skinny Puppy e in generale a certo cattivissimo rock mittel-europeo, ma non disdegna passaggi classici (invero banali) e aperture più orecchiabili. Un minestrone che può essere indigesto, ma che non nasconde la capacità di intrattenere e di voler stupire. Da tenere d’occhio.


Ghali – DNA

Il primo lavoro, “Album”, è stato una delusione: non conservava molto delle peculiarità di Ghali, un trapper-rapper wannabe pop-star che ne usciva talmente annacquato, radio-friendly, smussato da apparire difficilmente riconoscibile. Più che l’esordio di Ghali, sembrava un succedaneo insaporito artificialmente. Acqua passata sotto i ponti ed eccoci al secondo lavoro, più coerente e meglio costruito, con almeno un singolo che potrebbe fare un successo clamoroso, “Good Times” (lo scrivo a inizio Marzo, vediamo se indovino) ma anche un parziale ritorno al cupo e fattissimo spirito di un tempo (“Giù x Terra”). Deleteri momenti di spudorato pop, bel feat con Tha Supreme, “Marymango”. Promosso con riserva.


Denzel Curry x Kenny Beats – UNLOCKED

Ufficialmente un Ep, collaborativo, è in sostanza una colonna sonora di un cortometraggio che rimesta l’hip-hop anni 90. Spigoloso, aggressivo, crudo nella produzione, vede Curry sgolarsi e dimenarsi con grande padronanza dei propri mezzi. Un esercizio di stile, di 18 minuti, ma fatto da fuoriclasse.


Loathe – I Let It In And It Took Everything

Metalcore non fa esattamente rima con sperimentazione, ma in questo caso la band inglese unisce Deftones (molto presenti) e un corazzato gusto melodico, che dialoga con lo shoegaze ma anche con certo prog-metal tipo Mastodon. Furbetto, ma godibile; sicuramente oltre la media del metalcore del post-2005.


Jay Electronica – A Written Testimony

Il deludente esordio di un rapper che era nel pieno dell’hype a inizio decennio. Con Jay-Z a duettare aumm aumm, Travis Scott di soppiatto e altre mille spintarelle, Jay non riesce comunque a superare la sostanziale mediocrità.


Warp Chamber – Implements Of Excruciation

Gli statunitensi Warp Chamber sono fra gli ultimi arrivati nel revival del più marcio e ossessivo death-metal. Facile che sul taccuino del musicofilo l’ascolto susciti paragoni con i primi Death, ma anche Morbid Angel, Repulsion e Suffocation. (la mia recensione estesa su Ondarock)


Plague – Portraits Of Mind

Dalla Grecia arrivano i Plague, che esordiscono dopo 9 anni dalla fondazione. Si allineano alla recente fascinazione per il death-metal old-school, che interpretano con attenzione alla componente melodica e sfruttando con misura la forza di una produzione più moderna. In più, cercano in ogni modo di non appiattire il tutto all’ennesimo, e monotono, profluvio di violenza sonora. Ci riescono quasi sempre. (la mia recensione estesa su Ondarock)


The Weeknd – After Hours

L’opposto dell’album di Dua Lipa, dunque una sostanziale delusione per una popstar che sembrava dovesse fare il fatidico botto. 83 di Metacritic fin troppo generoso.


36 – Music For Isolation

Lo dice il titolo: la colonna sonora ambient-drone per la quarantena. Non proprio originale, è praticamente come ve la immaginate prima di premere play, ma comunque attualissima. Una roba che, nel 2001, non avrebbe avuto senso.

Altri album 6/10:


5/10

  • J Ax – ReAle (recensito da me su OndaRock)
  • Anastasio – ATTO ZERO
  • Internat Rot – Grieving Birth
  • J Hus – Big Conspiracy
  • Mostro – Sinceramente Mostro
  • Rosa Chemical – Forever
  • Lady Gaga – Chromatica
  • Poems Of The Past – Powfu
  • Flavio Ferri – Altered Reality
  • Mambolosco & Boro Boro – Caldo
  • Trap God – Street Cinemv
  • Maury B – Na.To – Qui
  • Tonno – Quando Ero Satanista
  • Big Fish – Draft Vol.1

Peggio ancora…